Anche gli odori di casa Stradone erano particolari: appena veniva aperta la porta dell’abitazione dei nonni si era travolti da un turbine di aromi. I prevalenti erano quelli di vernice, trementina, acquaragia, formalina ma, annusando bene, si poteva anche percepire il profumo del ragù, che da molte ore “pipiava” sui fornelli, l’odore del merluzzo di Duccio, l’aroma delle bucce di arancio o di mela marcescenti.
L’appartamento non era molto grande e, malgrado le finestre fossero tenute aperte in tutte le stagioni, anche di inverno, le stanze ormai erano pregne di questi forti e contrastanti odori.
Qualche volta ad accogliermi trovavo anche zio Giovanni o zio Pittura, come lo chiamava Paola. Al trillo del campanello piuttosto acuto e al mio ingresso, si affacciava per metà corpo dalla porta della sua stanza situata in fondo al corridoio. Non veniva fuori del tutto ma mi salutava di lontano con la mano perché diceva che era impresentabile. In verità sarebbe venuto comunque a salutarmi, ma nonna glielo impediva: “Nino, ritirati, sistemati, non puoi presentarti così combinato”. Zio sorrideva, ammiccava con gli occhi in modo molto simpatico per farsi perdonare il suo abbigliamento poco ortodosso e si ritirava nella sua stanza.
D’estate il suo abito da lavoro erano delle larghe brache di tela fino al ginocchio e una canottiera sbrindellata, con qualche buco qua e là; tale era l’impeto con cui dipingeva che non si accorgeva che schizzi di colore ad olio gli finivano un po’ dappertutto, sulle braccia, sul viso, fra i capelli. D’inverno invece indossava dei vecchi pantaloni rattoppati molte volte da mia nonna e una camicia che un tempo bianca era diventata una tavolozza di colori. Dopo essersi rassettato alla meglio zio Giovanni compariva poco dopo nella camera da letto della nonna dove abitualmente eravamo ricevute. Aveva quasi sempre in mano un grosso batuffolo di cotone intriso di alcol o di un solvente che si passava più volte sulle braccia, sul collo, sulle mani per togliersi le tracce di vernice; terminata questa operazione nella quale metteva molta cura, si allontanava tornando poco dopo con un asciugamano con il quale si asciugava il viso ed i capelli ancora grondanti d’acqua.
Terminate le sue pulizie si sedeva su una sedia vicino all’armadio, di fronte al comò su cui era appesa una lunga specchiera. Il comò era sempre ingombro di tanti oggetti: pettini, spazzole per capelli e per gli abiti, ma soprattutto medicine che utilizzava tutta la famiglia. Lo sciroppo per la tosse, la bottiglia dell’amaro Giuliani, la scatoletta esagonale di latta della magnesia S.Pellegrino, l’Optrex con il bicchierino per i lavaggi oculari, la vegetallumina, il Formitrol da sciogliere in bocca, l’Optalidon per il mal di testa, il Vix Vaporub per le strofinazioni sul petto quando le vie aeree erano costipate, il callifugo del signor Ciccarelli, la scatoletta di metallo con le siringhe di vetro sempre pronte per essere messe sul fuoco dei fornelli a sterilizzare in caso di necessità. Mentre zio mi faceva qualche domanda si guardava più volte allo sp
ecchio studiandosi attentamente ed ascoltandomi in modo distratto. Altre volte mentre gli raccontavo qualche esperienza scolastica mi seguiva con lo sguardo con molto interesse, osservandomi in modo intenso, non togliendomi gli occhi curiosi di dosso. Poi, però, improvvisamente si alzava nel mezzo della conversazione e spariva.
Qualche volta ricompariva dopo un po’ di tempo con la bocca piena, sbucciando un arancio che mangiava avidamente, introducendo gli spicchi a tre a tre nella bocca. Allora la nonna lo rimproverava come se fosse un bambino per il fatto che mangiasse davanti a me o a mia sorella senza fare neppure il gesto di offrirne una parte. Ma lui non ci faceva caso e usciva dalla stanza facendo spallucce, ciabattando con ai piedi un vecchio paio di pantofole di pelle rovinate, ridotte in uno stato pietoso. Altre volte invece ricompariva nel giro di pochissimo tempo tutto vestito e calzato, con il cappotto, il cappello e una sciarpa al collo oppure con i capelli impomatati dalla brillantina Linetti ed il viso appena sbarbato su cui era ancora visibile qualche piccola ferita sanguinante che l’allume non era riuscito completamente a fermare. In mano aveva quasi sempre una cartella, come quelle per la scuola, ci salutava dicendo alla nonna di non aspettarlo per cena.
La nonna molte volte cercava di giustificare gli strani comportamenti di zio Giovanni dicendo che era un artista e che gli artisti si comportavano cosi. Perciò io non mi sorprendevo più di tanto per le sue originalità che consideravo normali per un pittore. Dei fatti che gli raccontavo si interessava di alcuni particolari insignificanti, che invece a lui sembravano molto divertenti, lo si capiva perché se li faceva ripetere più volte. Alla fine del racconto rideva in modo molto buffo e diceva: “Curioso, curioso!”. Curioso era il suo aggettivo preferito e ciò che lo incuriosiva lo divertiva molto. Quando diceva curioso, potevi essere certo di avergli raccontato qualcosa che aveva messo in moto la sua fantasia, di averlo interessato ed io ero fiera di avergli offerto questa opportunità.
Tratto dal Romanzo “Il giardino della Memoria” di Letizia Stradone