Nella camera di zio Giovanni era vietato entrare, nonna alle mie insistenze soleva rispondere: “Letizia, mi dispiace non puoi entrare perché ti sporcheresti i vestiti; zio è molto disordinato, lascia tutto in giro e ci sono molti quadri ad asciugare. Se per sbaglio li tocchi o li sfiori con un lembo dell’abito si possono rovinare e allora… chi lo sente zio Nino!”. Io sul principio mi facevo convincere, ma poi, tanto era il desiderio di entrare in quel antro di Ali Babà, che appena nonna era intenta in qualche lavoro spingevo l’uscio accostato e scivolavo all’interno. Lì dentro l’odore di vernice e di tutti gli altri strani aromi era assai intenso, ma a me piacevano molto e con un po’ di timore di essere scoperta, soprattutto preoccupata che zio potesse tornare all’improvviso, mi aggiravo per la stanza osservando tutto avidamente con tanta curiosità. Ogni cosa era estremamente interessante, se avessi potuto mi sarei fermata delle ore, ma non era possibile, ed allora cercavo di stamparmi nella mente più in fretta possibile tutto quanto la stanza conteneva. Per terra, sulle sedie un po’ da per tutto vi erano grandi barattoli di latta, quelli che un tempo si usavano per conservare i pomodori pelati o il tonno sott’olio o ancora le alici sotto sale. I barattoli erano senza coperchio e al loro posto erano collocate delle retine di maglia di ferro lasciate molto morbide. All’interno si vedevano bucce di arancio, spicchi di frutta in decomposizione, foglie di lattuga avvizzita e, posati su di essi insetti di ogni tipo. Erano uno spettacolo bellissimo, cetonie dai vari colori, coleotteri, stercorari, bacherozzi di tante forme. Qualche volta zio me li faceva vedere da molto vicino, mettendoseli sulle mani perché io li potessi ammirare dicendomi il loro nome, di cosa si cibavano, quali erano le loro abitudini.
In primavera quando il sole entrava ormai tiepido nella stanza, zio Giovanni liberava qualche cetonia alzando la reticella. Allora si alzavano in volo per la stanza, facevano qualche giro ronzando come piccoli elicotteri poi, imboccando la finestra, si allontanavano nell’aria mentre io li seguivo incantata. Zio Giovanni era felice di stupirmi con i suoi insetti e rideva come un ragazzino.
Un giorno che era in casa, mentre io come al solito facevo capolino alla porta della sua stanza, mi disse: “Entra pure, ti faccio vedere una cosa molto interessante, assai difficile da osservare in natura”. Entrata, vidi al centro della stanza su uno sgabello appoggiato un grosso barattolo come quelli che erano sparsi un po’ dappertutto, forse un po’ più grande. “
Avvicinati” soggiunse “non aver paura, cosa vedi?” Guardai con attenzione, ma il barattolo mi sembrava vuoto, c’erano soltanto come al solito alcune bucce di mela marroni e rinseccolite, ma poiché lo zio insisteva che osservassi bene, mi avvicinai di più e dopo qualche instante vidi che alcune bucce incominciavano a muoversi lentamente, sorpresa, facendomi ancora più vicina, capii che n
on erano bucce quelle che vedevo ma strane creature, molto esili con delle zampe lunghe e filiformi, quelle anteriori erano piegate e giunte come se quell’esserino fosse intento a pregare. “Chi sono?” gli chiesi preoccupata.“Sono mantidi religiose, insetti con abitudini molto particolari” mi spiegò zio Giovanni serio e compreso nel ruolo dell’insegnante. “Le femmine non amano molto i maschi” aggiunse “E dopo che si sono accoppiate li uccidono”.
Poi facendomi segno di farmi più vicina al barattolo continuò: “Guarda, il maschio è stato colpito proprio ora”. Allora rivolsi nuovamente lo sguardo al recipiente e vidi che di fronte all’insetto che pregava ve ne era un altro a terra che si muoveva appena, forse stava morendo. Rimasi colpita dalla scena, quell’essere agonizzante con le zampine all’aria mi turbò, provai un senso di nausea, gli odori forti della stanza che di solito mi piacevano divennero improvvisamente insopportabili ed allora scappai dalla stanza odiando lo zio che, invece di soccorrere il malcapitato, continuava ad osservare la scena con aria rapita.
Quando chiedevo alla nonna perché non li buttasse mi rispondeva che l’era vietato, che lo zio se ne serviva per dipingere le sue nature morte. Sempre sul muro vicino alla porta, sulla destra di chi entrava era appesa la bicicletta da corsa di zio Giovanni, spesso gli avevo chiesto perché ogni volta l’appendesse in una posizione così scomoda piuttosto che poggiarla al muro, ma lui mi aveva risposto che quella era la posizione migliore per conservarla bene e non fare sgonfiare le gomme delle ruote.
Poiché la stanza era ingombra per la presenza di tanti oggetti, i più strani ed inimmaginabili, era molto difficile trovare una sedia sgombera da impicci su cui sedersi per cui io rimanevo quasi sempre in piedi ad osservare; una cosa che attirava in modo particolare la mia attenzione era una boccia di vetro, come quella in cui si mettono i pesci rossi, nella quale galleggiava in un’acqua giallastra un fungo cinese.
Zio decantava le sue proprietà medicinali ed aveva il coraggio al mattino di bere una tazza di quel intruglio. Solo una parete della stanza era rimasta libera e lungo di essa era stata sistemata una branda su cui la notte lo zio dormiva.Sì, per quanto adesso possa sembrarmi inconcepibile, zio Giovanni dormiva in quella confusione, in compagnia degli insetti vivi o morti nelle teche, dei numerosi uccelli impagliati, in mezzo ai quadri ancora freschi di vernice, ai fiori secchi, alle biciclette, ai mandolini, a tante altre cose strane che accendevano la sua vulcanica fantasia. Dormiva in quella camera assai simile ad un negozio di rigattiere avvolto da tanti odori: acri, pungenti, dolci e al tempo stesso nauseabondi che a chiunque avrebbero tolto il respiro o fatto girare la testa. Ma lui soltanto in quella stanza che era tutto il suo mondo, lontano dalla quale non avrebbe potuto vivere, traduceva sulle tele in immagini personalissime ciò che al di fuori di essa lo aveva sorpreso affascinato, turbato, fatto sognare, inquietare, ridere.
tratto dal Romanzo “Il giardino della Memoria” di Letizia Stradone